Dante

‘Il canto di Ulisse’ is taken up, in its second half at least, with an astonishingly powerful account of Levi’s attempt to recite a famous canto of Dante’s fourteenth-century poem, the Commedia: this is canto 26 of the canticle of Inferno, in which the re-imagined Homeric hero, Ulysses, recounts to Dante, who is on an epic journey through Hell, his final voyage with his shipmates beyond the Pillars of Hercules towards a great mountain. Medieval Christian readers, but not Ulysses himself, know this to be the Mountain of Purgatory, which Dante himself will soon visit. Ulysses and his crew die in a shipwreck before reaching it.

Much of the power of the chapter derives from Levi’s desperate attempts to reconstruct the text from his schoolday memories of studying Dante and to recite the poetry for his companion Jean.

Throughout the commentary, we link to Dartmouth College’s DanteLab for the Petrocchi edition of Dante’s Commedia and a wide range of both early and contemporary commentaries on the canto, and also suggest Teodolinda Barolini’s commentary on Inferno 26 for an introductory commentary.

Below you can find a comparative reconstruction of the second half of Levi’s ‘Il canto di Ulisse’ alongside the text of Inferno 26, 85-142 (from the ‘edizione nazionale’, edited by Giorgio Petrocchi, 1966-67). To follow the accuracy, and the gaps and elisions, in Levi’s version, we have spread out the text of Inferno 26 to appear alongside the quotations in the chapter, as far as is possible, and highlighted in bold the verses and phrases Levi remembers in both columms, with those that seem to be misremembered shown in colour. (In one case, shown here in green, Levi mistakenly quotes a line from Inferno 3, 133.)

Inf. 26, 85-142 (Petrocchi edition)

 

‘Il canto di Ulisse’ (1958), second half

 

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando

Lo maggior corno de la fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando,
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre
, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

    Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica».

    E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sí Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la piéta Del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?

Ma misi me per l’alto mare aperto.

    Di questo sí, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
    Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posa-cavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giú di morale, non parla mai di mangiare.

sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

    «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento piú se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta
da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l’altra già m’avea lasciata Setta.

«O frati», dissi, «che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

Acciò che l’uom piú oltre non si metta.

«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.»

 

    Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.

    Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

    Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

Li miei compagni fec’ io sì aguti
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

Li miei compagni fec’io sí acuti

 

… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «… Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.

    – Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
    Sí, sí, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
    Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. 
    Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giú, come altrui piacque…

    Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai piú, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del cosí umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…

    Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Kaposzta és répak.
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso.